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Kant

Kant


Immanuel Kant, filosofo tedesco (Königsberg, od. Kaliningrad, 1724-1804).


Kant trascorse tutta la vita a Königsberg, dove era nato da una famiglia di modesta condizione (il padre era sellaio).
A otto anni entrò nel Collegium fridericianum, diretto da Albert Schieltz, seguace del movimento pietista: il piccolo Kant era stato del resto avviato già dalla madre alla devozione pietistica, caratterizzata dall’atteggiamento, sopraconfessionale e dalla fede nel valore salvifico del sentimento e dell’azione pratica.
A sedici anni entrò nell’università di Königsberg, dove seguì i corsi di Martin Knutzen, wolffiano e pietista anche lui.
Dal 1746 al 1755 continuò gli studi e approfondì fra l’altro particolarmente la conoscenza della fisica di Newton, guadagnandosi intanto da vivere con il lavoro di precettore privato, finché nel 1755 conseguì il dottorato con una dissertazione dal titolo Del fuoco (De igne).
 
Nel quindicennio successivo le sue meditazioni e la lettura appassionata di Hume e di Rousseau lo distaccarono sempre più dagli originari influssi wolffiani.
 
Nel 1770 divenne professore ordinario di logica e di metafisica presso l’università di Königsberg. Sul carattere metodico e abitudinario della vita di Kant esiste una nota tradizione aneddotica, secondo la quale, fra l’altro, i cittadini di Königsberg avrebbero regolato gli orologi sull’ora della quotidiana passeggiata del filosofo.
Ma l’uomo non viveva affatto fuori del mondo, e la stessa tradizione ci avverte che egli sconvolse i suoi orari quando apprese con emozione profonda i primi successi della Rivoluzione francese.
 
Gli ultimi anni della vita di Kant furono caratterizzati dal rapido declino delle sue facoltà mentali.
Gli scritti pubblicati prima del 1770 rappresentano il periodo «precritico».
 
Si tratta di lavori convenzionali, talvolta anche confusi, nei quali l’autore si sforza di definire i concetti fondamentali della nuova meccanica, cercando di risolvere il conflitto fra le posizioni dei cartesiani, dei leibniziani e dei newtoniani, come nello scritto del 1746 Pensieri sulla vera interpretazione delle forze vive. Assai più interessante è l’opera del 1755 Storia naturale universale e teoria del cielo, nella quale Kant prospetta l’ipotesi della derivazione del sistema solare dal moto vorticoso di una nebulosa staccatasi dal caos originario (V. voce seg.), e contesta comunque a Newton che sia indispensabile far intervenire un principio soprannaturale per rendere ragione dell’origine del sistema. Sulla pericolosa facilità delle ipotesi metafisicoteologiche e sulla inevitabile arbitrarietà di esse Kant ritornò più esplicitamente nello scritto del 1766 I sogni di un visionario spiegati dai sogni della metafisica.
 
La critica (parola che nell’uso kantiano conserva l’accezione originaria di sentenza motivata sulla legittimità di una pretesa) venne prospettandosi così sempre più chiaramente come il compito fondamentale della filosofia: a tale conclusione Kant giunse anche per l’influenza della lettura di Hume, che lo risvegliò dal «sonno dogmatico».
 
La fase costruttiva del criticismo ebbe inizio nel 1770, con la pubblicazione della dissertazione latina Sulla forma e sui principi del mondo sensibile e intelligibile (De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis).
 
In essa viene affrontato il duplice problema dell’origine della nostra conoscenza e dei limiti della ragione, la cui trattazione fu poi sviluppata in forma più sistematica nella Critica della ragion pura* del 1781. La conoscenza umana è nel suo complesso un contesto di giudizi, che possono essere analitici o sintetici. Un giudizio è analitico quando in esso viene attribuita al soggetto una qualità implicita nel concetto di questo. La norma della convenienza del predicato al soggetto va ricercata in tal caso nei soli principi logici di identità e di non contraddizione. Nel giudizio analitico «il triangolo ha tre angoli» la qualità esplicitamente designata dal predicato è enucleata per analisi fra tutte quelle inerenti al soggetto.
 
Un giudizio analitico non amplia la conoscenza umana e ha funzione meramente discorsiva e chiarificatrice. Tutti i giudizi analitici sono a priori, nel senso che il riferimento del predicato al soggetto è fondato non su di una verifica empirica, ma unicamente sulla non
 
contraddittorietà di questi. In ciò sta anche il fondamento della incondizionata validità di tali giudizi. Nei giudizi sintetici invece viene attribuita al soggetto una qualità nuova, non desumibile dal concetto di esso: l’affermazione «i corpi sono pesanti» non sarebbe possibile, se non si fosse ricavata dall’esperienza la nozione dell’inerenza della qualità «peso» ai corpi. I giudizi sintetici sono dunque a posteriori e arricchiscono la nostra conoscenza, ma, come aveva osservato Hume, mancano di quella incondizionata validità che caratterizza i giudizi analitici: essi non sono né universali, né necessari. Pure, quello che noi chiamiamo scienza (la matematica e la fisica in particolare) presenta la caratteristica singolare di essere costituito da giudizi che sono sintetici, dunque estensivi del sapere, e tuttavia universali e necessari. Fra una qualunque affermazione di fatto e un giudizio scientifico la differenza sta
 
appunto nel carattere di incondizionata validità del secondo: il torto di Hume è quello di aver creduto illusoria una tale distinzione. Ma, una volta dato per riconosciuto il fatto dell’esistenza storica del sapere scientifico, il compito della filosofia diventa quello di provare come un tale sapere sia possibile, di individuare cioè le condizioni necessarie e sufficienti perché siano costruibili giudizi sintetici a priori. Tutta la storia della filosofia moderna d’altra parte avverte che è vano e pericoloso cercare fuori di noi il fondamento della necessità e della universalità del sapere: l’alternativa già verificata oscilla fra la negazione scettica della possibilità della scienza, che entra manifestamente in conflitto con la realtà, e la fondazione dell’universalità sulla base di un ordine metafisico del tutto gratuito e arbitrario. La via scelta da Kant fu quella di cercare il fondamento dell’oggettività del sapere scientifico nel soggetto della conoscenza, anziché fuori di esso: egli stesso definì questo rovesciamento di prospettiva rivoluzione copernicana, in analogia con l’operazione compiuta da Copernico nel costruire un modello «ribaltato» di sistema solare. Di fatto la conoscenza non è acquisizione passiva di dati provenienti dal di fuori, ma si configura invece come attività unificante e ordinante, che il soggetto esplica mediante forme a priori.
 
Il mondo della natura è la risultante delle sintesi operate dal soggetto sui dati sensibili: le funzioni attraverso cui si estrinseca l’attività sintetica del soggetto sono chiamate da Kant anche trascendentali, per sottolineare il fatto che esse operano a costituire l’esperienza, non hanno significato che in essa, e tuttavia, in quanto a priori, non derivano da essa. La Critica della ragion pura risponde alla domanda sul come è possibile la scienza (domanda che si
 
identifica con quella relativa alla possibilità dei giudizi sintetici a priori) attraverso le due parti in cui è divisa: l’Estetica trascendentale e la Logica trascendentale, che comprende a sua volta l’Analitica trascendentale e la Dialettica trascendentale.
 
Il termine «estetica» venne assunto da Kant nell’accezione ereditata dal Baumgarten di «dottrina filosofica della conoscenza sensibile», senza alcun riferimento al problema della percezione del bello, che fu poi affrontato nella Critica del giudizio. La tesi fondamentale dell’Estetica trascendentale è che anche la conoscenza sensibile ha alla sua base due forme a priori, lo spazio e il tempo: sulla forma trascendentale dello spazio è fondata la geometria, su quella del tempo la matematica.
 
Nell’Analitica Kant studia i modi dell’attività sintetica dell’intelletto, il quale elabora concettualmente le intuizioni sensibili e le organizza mediante forme a priori o categorie. La deduzione delle categorie, e cioè la costruzione di una tabella ragionata, che includa tutte le forme a priori operanti nei giudizi dell’intelletto, è la parte più intricata e meno persuasiva di tutta la Critica della ragion pura: Kant individua dodici categorie (quantità: singolare, particolare, universale; qualità: affermativo, negativo, indefinito; relazione: categorico, ipotetico, disgiuntivo; modalità: problematico, assertorio, apodittico), ricavandole dalla classificazione dei giudizi in uso nella logica formale. L’unità delle categorie, e al tempo stesso l’unità dell’esperienza di tutti i soggetti possibili, che è la condizione dell’esistenza di un mondo oggettivo, sono da Kant fondate sull’io penso, cioè sulla forma fondamentale dell’unità della coscienza, che è alla base di ogni giudizio possibile. L’intelletto costruisce così il mondo dei fenomeni, ma non è illegittimo porsi la domanda del senso che può avere un discorso riferito alla realtà in sé, cioè alla realtà non condizionata dal suo modo di «apparire» a noi. Kant designa la realtà non fenomenica col termine noumeno, il cui senso può essere parafrasato con la formula «ciò che può essere conosciuto mediante un’intuizione intellettuale», della quale peraltro la mente umana è assolutamente incapace.
 
In Kant la nozione di noumeno resta fondamentalmente problematica: essa allude non a una conoscenza effettiva, ma solo al «pensiero di qualcosa in genere, nel quale io fo astrazione da ogni forma di intuizione sensibile».
 
Il carattere specifico della metafisica dogmatica è appunto nella pretesa di costruire una scienza del noumeno.
L’organo della metafisica è la ragione in senso stretto, intesa come facoltà che aspira a cogliere l’assoluto e l’incondizionato. Disancorandosi dai limiti posti dall’intuizione, la ragione metafisica costruisce le idee, e il tema della Dialettica trascendentale è appunto la dimostrazione dell’impossibilità che esse diventino oggetti di scienza. L’esigenza dell’assoluto, che le idee attestano, è legittima e insopprimibile, ma il modo in cui la metafisica pretende di soddisfarla è condannato a sicuro fallimento.
Kant ritiene che quell’aspirazione trovi una risposta positiva e legittima in un altro ordine, che è quello della vita morale.
 
Questo tema fu affrontato nella Critica della ragion pratica* (1788). Se la prima Critica presuppone l’opera di Hume, anche come riferimento polemico, oltre che come benefico stimolo a svegliarsi dal «sonno dogmatico», la seconda si trova in una relazione analoga col pensiero di Rousseau. La lettura di Rousseau insegnò a Kant che il valore dell’uomo non dipende dalla ricchezza delle sue conoscenze (concezione «democratica» della dignità umana, alla quale Kant era del resto preparato dalla sua educazione pietistica) e lo rese al tempo stesso diffidente dinanzi all’indeterminatezza e alla ambiguità della nozione rousseauiana di «sentimento».
 
La moralità non può avere una misura così variabile e soggettiva, come quella costituita dalla mutevole e incostante «sensibilità». C’è al contrario in ogni uomo la consapevolezza che la moralità è essenzialmente dovere, tensione di adeguamento della propria condotta a una norma assoluta. A tutte le azioni dell’uomo, di questo essere scisso fra le sue inclinazioni naturali e la sua razionalità, è sempre sotteso un comando (imperativo) della ragione. Tali imperativi vengono da Kant chiamati ipotetici, quando la ragione interviene come criterio della convenienza del mezzo rispetto al fine voluto, sicché lo schema di essi è sempre il seguente: «se vuoi questo, fa’ quest’altro».
 
Ora il carattere specifico del comando morale è invece quello di una imperatività incondizionata: tutti sanno che certe cose vanno fatte perché così la coscienza ordina, indipendentemente da ogni valutazione delle possibili conseguenze dell’azione. Kant chiama perciò il comando della coscienza morale imperativo categorico, e questa categoricità implica da un lato l’assoluta irrilevanza delle condizioni storico-empiriche dell’azione (e quindi la svalutazione a formule puramente esterne delle leggi dello Stato), dall’altro il fondamento puramente razionale dell’imperatività. Nel corso ulteriore dell’indagine la critica della ragione pratica si converte in una nuova metafìsica. In primo luogo la capacità
 
dell’uomo di agire autonomamente, emergendo dal condizionamento dell’ordine naturale, entro il quale egli è pure inserito, esige che gli venga riconosciuta l’appartenenza a un ordine di realtà diverso da quello fenomenico: l’autonomia lo fa cittadino di un universo intelligibile, non condizionato dallo spazio, dal tempo e dalle categorie. In secondo luogo alla coscienza della legge morale è intimamente connessa la fede in alcune verità che, seppure ambigue teoreticamente, ci si impongono come condizioni imprescindibili della moralità.
Sono i postulati della ragione pratica, e cioè quello della libertà, quello dell’immortalità dell’anima e quello dell’esistenza di Dio.
 
Il problema che sta alla base della Critica del giudizio* (1790) può essere presentato nel modo seguente.
Da un certo punto di vista il mondo dei fenomeni e quello costituito dalle coscienze morali autonome sembrano privi di ogni comunicazione e destinati a non interferire mai l’uno con l’altro.
 
Tuttavia nella vita etica è implicita l’esigenza che si realizzi in qualche modo un ordine morale nel mondo: l’idea di una totale indifferenza dell’universo fisico alla tensione dell’azione morale, che pure in esso finisce sempre per scaricarsi, è per lo meno disperante. Non è verosimile invece che il mondo dei fenomeni sia in qualche modo già predisposto per accogliere la volontà morale?
 
E in ogni caso possiede l’uomo un organo capace di percepire questa riposta dimensione dell’universo fisico?
 
Secondo Kant un tale organo esiste ed è il sentimento, come principio dei giudizi riflettenti. La nostra «facoltà di giudicare» (die Urteilskraft) si esplica, oltre che come attività conoscitiva
 
vera e propria, anche come ricerca di una plausibile forma universale, entro la quale il molteplice della natura acquisti senso e unità: non si tratta di un’operazione conoscitiva, ma solo della percezione «sentimentale» di una dimensione del mondo, che il puro intelletto non è qualificato a cogliere.
Il giudizio riflettente si manifesta in due forme, il giudizio estetico e il giudizio teleologico. Mediante il primo l’uomo percepisce nel mondo fenomenico un felice accordo con la propria libertà interiore. Allora la realtà sensibile oggetto della contemplazione acquista i caratteri della bellezza (o anche, in certi casi, della sublimità). La parte della Critica del giudizio dedicata all’analisi del giudizio estetico è un capitolo fondamentale della storia dell’estetica moderna.
 
Nel giudizio teleologico viene invece intravista la finalità immanente nella natura e nella storia: non si tratta invero di un arricchimento della nostra conoscenza della realtà, ma solo di un’integrazione non teoretica dell’unica valida interpretazione scientifica del mondo, che è quella deterministica.
 
Oltre a quelle citate, le opere principali di Kant sono: Prolegomeni ad ogni futura metafisica che intenda presentarsi come scienza* (1783); Fondazione delia metafisica dei costumi* (1785); Primi principi metafisici della scienza della natura (1786); La religione entro i limiti della semplice ragione (1794), opera di ispirazione deistica che procurò a Kant una censura e il divieto di svolgere lezioni sull’argomento; Per la pace perpetua (1795), uno scritto di particolare interesse, nel quale viene formulata la previsione che i danni crescenti dei conflitti armati obbligheranno gli Stati a sottoporsi a organismi internazionali; La metafisica dei costumi (1797); L’antropologia dal punto di vista pragmatico (1798); Logica (1800); Opus posthumum, appunti e
 
frammenti vari, inclusi in due volumi dell’edizione delle opere complete. Per l’influsso esercitato da Kant sulla storia della filosofia, si veda anche KANTISMO.
Sito Web di
Samuele Simone
C.F. SMNSML71P01Z133R

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